Cicli Rivola / Biciclette su misura / Massa Lombarda, Italia / 1963 – 2005
Ha corso con bici Rivola: José Manuel Fuente
Palmares: Campione Italiano Allievi 1984 con società ciclistica Cotiglionese
Fonti: Intervista a Fausto Rivola, “sabato sera” del 30/9/2006 a cura di Lou Del bello. / Artigiani e Biciclette in Romagna nel ‘900, Ivan Neri
Ha collaborato con: Campagnolo / Umberto Chiesa
Come tante altre piccole imprese per la costruzione di cicli dell’epoca, quella della famiglia Rivola non si riduce alla semplice dimensione di lavoro finalizzato al guadagno, dietro ci sono soprattutto relazioni umane, come quella tra padre e figli e tra costruttore e corridore.
La storia del marchio inizia con Giovanni, nato nel 1925 e chiamato “il Maestro” dai concittadini massesi, grande appassionato di bici e tifoso di Coppi tanto da chiamare il primo figlio Fausto, nella speranza che potesse un giorno diventare corridore. Faceva il muratore ma la passione per il ciclismo finì per diventare la sua vita. La carriera di Giovanni nel mondo del ciclismo inizia alla fine degli anni ’50 nello scantinato di casa intorno, lì modella su misura a mano le selle in pelle di bufalo “Brooks”, su commissione di campioni come Gimondi, Adorni, Ferretti e Reggi.
Giovanni ebbe due figli, Fausto e Gianni, quest’ultimo già a nove anni passava le vacanze chiuso nella nuova officina aperta dal padre ad imparare e, finita la scuola, cominciò a lavorare con padre e fratello in officina.
Gianni Rivola (2005)
“Allora andavano di moda un tipo di sella chiamato Brooks, in cuoio di bufalo, la usavano tutti i campioni. Mio padre le lavorava prima che venissero usate dai corridori, in modo che prendessero già la forma della seduta, poi veniva smontata, ed infine rimontata e tirata, creando così una sella su misura. In quel periodo venivano a casa mia ogni anno, a prender due o tre selle per ciascuno, i tre campioni Gimondi, Adorni e Ferretti”. Col tempo ha iniziato a fare anche piccole riparazioni e ha continuato fino ai primi anni ’60. Credo che la prima bicicletta marchiata a suo nome sia uscita nel 1963 e costava settantamila lire. Era una bella cifra per quegli anni, ma si tratta di una bici artigianale.
Mio padre particolarmente bravo a fare le ruote, completamente a mano. Anche mio fratello Fausto in negozio si specializzò in questo lavoro, imparò da mio padre e continua a farlo ancora oggi (ndr 2022)”.
È nei primi anni ’60 che Giovanni decide di fondare il proprio marchio di biciclette da corsa. I primi telai li ordinava alla Rossin di Milano ma la svolta avvenne quando nel 1963 riuscì a coinvolgere nella costruzione dei suo telai il maestro telaista bolognese Umberto Chiesa, di cui Rivola già conosceva e apprezzava il lavoro. Iniziò così una lunga collaborazione, Chiesa prendeva le misure ai clienti e costruiva i telai mentre del lavoro di assemblaggio e rifinitura si occupava Rivola, sempre nello scantinato di casa ma. Dato il veloce successo che ottennero le sue bici, già l’anno successivo Giovanni si decise a lasciare il lavoro da muratore per dedicarsi interamente alla nuova attività, così fu registrata alla camera di commercio la Cicli Rivola, con sede in via Amendola.
Per caratterizzare i telai Rivola, Chiesa fu il primo a ideare e perfezionare gli attacchi dei forcellini a “coda di rondine“, in breve tempo poi imitati da altri telaisti della zona e del nord Italia, nel modello Rivola Superleggera gli attacchi sono ulteriormente alleggeriti con un foro.
Nel settembre del 1971 si presentò davanti al negozio un ragazzo piccolo e dall’aspetto fragile, si trattava di Josè Manuel Fuente Lavanderia detto anche “el Tarangu”, corridore professionista della famosa squadra spagnola KAS, considerato uno dei migliori scalatori al mondo di quegli anni. In quel periodo si trovava in Romagna per disputare le ultime gare della stagione. Quel giorno, mentre si allenava sulle nostre strade, ebbe un guasto meccanico e capitò così per caso nel negozio di Rivola che, con grande tempismo, risolse il problema. Durante quell’incontro il piccolo scalatore spagnolo rimase colpito dalla professionalità dell’artigiano e di lì a poco gli ordinò una bicicletta speciale con caratteristiche particolari per affrontare le lunghe salite del giro d’Italia. La bici gli fu consegnata l’anno successivo direttamente nell’albergo dove alloggiava la squadra da Giovanni all’arrivo della settima tappa Iseo – Lido delle Nazioni, completa con il colore ufficiale della KAS ma senza marche. A quel tempo Giovanni non aveva un automobile e si fece quindi prestare un passaggio da un cliente che faceva il tassista per arrivare in tempo alla consegna. In quel Giro Fuente, in sella alla bici Rivola, vinse la 19ò tappa Andalo – Auronzo di Cadore, staccando corridori del calibro di Eddy Merckx e Gimondi.
Giovanni amava il suo lavoro e in particolare farlo senza troppa confusione o stress, le ruote ad esempio le finiva di assemblare di domenica chiuso nella propria officina, così da non essere disturbato da nessuno. A prova della sua padronanza tecnica come meccanico si possono ricordare diverse proposte, da parte di importanti marchia del ciclismo, di abbandonare l’azienda per approdare nel professionismo, come ad esempio l’offerta di incarico alla quadra Salvarani. Tutte le proposte, a prescindere dal prestigio dell’offerente, furono sempre rifiutate da Giovanni perché era consapevole che lavorare per i professionisti richiedeva tempi stretti e ritmi stressanti, cosa che andava in conflitto con il suo metodo fatto di grande attenzione anche ai più piccoli dettagli, con pazienza e senza pressione.
Nel 1978 Chiesa aveva ormai raggiunto l’età per la pensione e desiderava lasciare il lavoro. Fu così che Giovanni chiese al figlio Gianni di imparare a costruire i telai e sostituirlo in officina. Ovviamente non si trattava di una operazione semplice, per un mestiere così complesso serve una vera e approfondita formazione oltre ad un maestro di lunga esperienza.
Chiesa accetto quindi volentieri l’invito di Giovanni di passare il testimone al giovane Gianni e gli cedette tutte le attrezzature, maschere e piani di riscontro compresi. Per due anni si recò in corriere dai Rivola tre volte a settimana per insegnare al giovane Gianni tutto quello che sapeva. Dal 1978 e per circa quindici anni le biciclette firmate Rivola furono quindi completamente prodotte in famiglia.
Gianni mantenne in vita l’attività fino al 2005, adeguando l’offerta in base alla forte innovazione tecnologica di quei tempi, fino a quando chiuse l’officina per lavorare in un altro negozio. Con la chiusura dell’officina del “Maestro Rivola”, oltre alla perdita di un servizio importante per la comunità, venne a mancare anche quello che era divenuto il tradizionale punto di incontro per tanti appassionati di ciclismo, un luogo dove poter condividere animate discussioni sull’ultima uscita in bici o di quella che sarebbe venuta.
Come nella migliore tradizione dell’artigianato italiano, Giovanni Rivola ha saputo trasmettere la sua abilità ai figli Fausto e Gianni, il primo ancora oggi continua a costruire ruote perfette.
Gianni Rivola (2005):
“Quel periodo (1964) mi è servito per apprendere i primi rudimenti, che poi mi sarebbero serviti in futuro. Nel 1978 mio padre infatti mi chiese di lavorare con lui e imparare a fare i telai. Chiesa, che ormai era anziano e in pensione, mi avrebbe insegnato tutto quello che sapeva, accettai e presi un’altra officina. Ricordo ancora che Chiesa, in quel periodo, veniva da noi in corriera tre volte a settimana per insegnarmi il mestiere.
Il metodo che Che chiesa mi insegnò era ovviamente quello artigianale dell’epoca, ereditai da lui anche tutta l’attrezzatura tra cui un piano di riscontro realizzato da Patelli di Bologna.
La tecnica era quella della saldo brasatura con fucina a carbone di legno dolce per le saldature dello sterzo, del movimento centrale e del tubo sella, operazione che richiedeva circa un’ora e mezzo. Il carro e i forcellini venivano invece saldati a parte con fiamma ossidrica e Castolin perché la saldatura avesse maggiore resistenza.
Per un telaio finito impiegavo circa 20 ore, quasi tre giorni di lavoro. La curva della forcella la creavo con un uno stampo, scaldandola prima a mano e dopo aver già saldato i forcellini nel tubo del fodero, la piegatura doveva essere di 6-7cm e avveniva in 3 parti, si teneva conto nel farla della distanza tra il centro del movimento e quello dei mozzi che doveva essere di 4,3-4,5 cm nei telai più grandi e di 4 cm in quelli più piccoli, per dare maggiore stabilità al telaio e prima di tutto per non rischiare che il piede andasse a toccare la ruota; questa distanza viene tecnicamente definita REC e cambia leggermente a seconda delle idee del telaista. Sempre per lo stesso motivo per i telai grandi il tubo piantone lo saldavo con un’angolatura di 72,5°-73°, mentre per quelli più piccoli non era minore di 74°, le congiunzioni che utilizzavo erano della Cinelli mentre i componenti della Campagnolo.
Producevo 80/90 telai all’anno, il record di produzione l’ho avuto nel 1981 con 120 biciclette e la mia produzione totale è all’incirca di 1.000 telai, il costo di un prodotto completo negli anni ’80 era di 2.000.000 di Lire.”
“I nostri telai seppur in incognito hanno partecipato anche a competizioni internazionali. Il Giro d’Italia passava in Romagna proprio nei pressi del nostro paese. Quale non fu la sorpresa di mio padre nel trovarsi davanti il corridore José Manuel Fuente che ci chiese una riparazione per un guasto riportato durante la gara. Mio padre lo aiutò e Fuente rimase colpito dalla sua competenza di meccanico e costruttore. Dopo qualche tempo, quando già ci eviravamo scordati dell’episodio, ecco Fuente in persona presentarsi dalla Spagna per ordinare due telai: naturalmente poi non vennero marchiati con il nostro nome, perché il corridore era legato ad uno sponsor, ma per noi è stato motivo di grande soddisfazione sapere che tante gare sono state vinte in sella ad una nostra creazione.
Tra il 1991 e il 1992 mio padre cominciò a non stare più bene, e poiché aveva già una settantina d’anni decise di lasciare l’attività. Presi io il suo posto, ma nel 1995 ho dovuto lasciare perdere il lavoro di telaista, che ho affidato ad un collaboratore esterno e dedicandomi alle riparazioni in un altro negozio, poi nel 2005 accettai un impiego presso la SOMEC di Lugo”.
“Nei primi mesi certamente è stato un po’ un trauma essere assunto per la concorrenza. Ho lavorato trent’anni in proprio e un cambiamento del genere non è uno scherzo. Però so di aver portato con me il valore della mia esperienza e professionalità, e questo mi rende comunque fiero.
Oggi (2005 ndr) con me lavora anche Oscar Veneziano, il meccanico che ha seguito Pantani. Dover abbandonare l’attività che si è creata con le proprie forze dal nulla è doloroso ma si tratta di una circostanza determinata dal modificarsi del mercato, divenuto troppo concorrenziale per il piccolo artigiano. Ancora una volta la bilancia pende a favore dell’industria e della produzione in serie. Quello che si perde è il valore umano. Dietro ad una produzione artigianale c’è sempre innanzitutto una persona che segue il cliente non solo al momento della vendita, ma anche dopo. La dimensione dell’officina era bella perché si creava un rapporto a misura d’uomo, una conoscenza reciproca basata su momenti condivisi, su una comunione di interesse.
Ad esempio, io ero anche un ciclista oltre che un meccanico, quindi il mio parere era ascoltato più volentieri. Ai giovani che vogliono intraprendere questo mestiere posso dire che è un lavoro duro, ci sono poche possibilità di inserimento. Ma se un consiglio lo si può dare, è l’insegnamento di mio padre: la fretta non paga mai. L’approccio giusto ad un mestiere come questo è quello di una volta, che richiede dedizione e tempo prima di vedere i risultati. Io ho sempre seguito questi principi, e sono stato ripagato con grandi soddisfazioni”.