La costruzione delle biciclette artigianali nasce in Emilia-Romagna alla fine dell‘800 nelle botteghe di abili fabbri o nelle cantine. In queste piccole o piccolissime officine era l’artigiano a progettare e costruire il telaio, a volte affiancato da uno o più assistenti (apprendisti e garzoni) i quali come anche il titolare provenivano spesso da famiglie povere e numerose. A quei tempi era normale che ragazzini di sei anni, in cambio di vitto e alloggio, venissero mandati in bottega ad imparare un mestiere, sgravando così la famiglia di una bocca da sfamare.

Contadini al lavoro nella pianura emiliana. Alcuni di loro decisero di cambiare mestiere aprendo una piccola officina.

Aprire un’officina a quel tempo non significava certo arricchirsi ma era comunque un lavoro libero e per molti fu preferibile al lavoro in fabbrica o nei campi, così alcuni hanno cominciato costruendo saltuariamente biciclette o facendo riparazioni fino a che non è diventata la loro attività di sostentamento principale. I clienti in genere erano persone del paese che non potevano permettersi il costo di una bicicletta di marca preferendo acquistare un bene così importante da un persona conosciuta a un costo inferiore. È grazie quindi alle botteghe artigiane che la bicicletta come mezzo di locomozione si è potuta diffondere fuori dalle grandi città e nelle fasce sociali più povere.

Tra gli artigiani c’era sicuramente rivalità ma anche molta stima e collaborazione. Capitava spesso infatti che il giovane apprendista diventasse lui stesso il titolare dell’officina o ne aprisse una per conto proprio, dando vita così ad una rete di relazioni e scambio di informazioni in grado di preservare e diffondere quel saper fare che, nel corso delle generazioni, non ha mai smesso di evolversi.
Già a partire dagli anni ‘40 la produzione artigianale dell’Emilia-Romagna si dovette confrontare con quella dei grandi marchi industriali del Nord, soprattutto lombardi e veneti, guidati da manager, che a differenza di ciò che avveniva nelle piccole botteghe emiliano-romagnole, seguivano vere strategie economiche. Con il passare dei decenni questa durissima concorrenza portò alla chiusura di molte botteghe artigianali, non solo in Emilia-Romagna, quelle che sopravvissero e si evolsero furono solo quelle guidate da artigiani con una sufficiente mentalità imprenditoriale e spirito di innovazione.

 

L’OFFICINA
Di solito intorno ai 30-40 mq di superficie le officine artigiane erano prive di finestre per impedire che le correnti d’aria disturbassero la fase di saldatura con la fiamma libera. Per questo il lavoro di saldatura provocava spesso seri problemi di salute, fumi e paste antiossidanti erano infatti cancerogene e i locali chiusi senza finestre aggravavano la situazione. Anche il lavoro di cromatura era molto inquinante e pericoloso per chi lo effettuava. A parte la verniciatura che veniva affidata ad aziende specializzate, tutte le fasi di costruzione e montaggio erano svolte internamente.
Al centro della bottega-officina vi era un grande tavolo di legno massiccio con supporto in acciaio, sulla pareti un pannello per disporre in modo ordinato gli strumenti e le cassettiere per viteria e componenti. A causa delle ristrettezze economiche gli attrezzi per l’officina solo raramente venivano acquistati dalle grandi aziende specializzate del Nord Italia, gli artigiani più abili preferivano costruirseli da soli e, se non erano in grado, li commissionavano ad altri artigiani della zona.

Attrezzi da officina per il costruttore di biciclette. Catalogo Patelli, Bologna.

Tavolo di riscontro per la costruzione del telaio, costruito da Vito Ortelli utilizzando i resti di un autoblindo della seconda guerra mondiale.
Officina Cicli Ortelli, Faenza. Foto Frameteller.

Tra gli artigiani ci fu anche chi grazie ad un corretto approccio imprenditoriale riuscì a trasformare la bottega in una attività di medie dimensioni. Aziende come Somec, Cinzia, Malaguti, Vicini, Testi, oltre ad un processo di produzione meccanizzato, completo anche di verniciatura e cromatura, si distinguevano per la scelta di non impiegare apprendisti non stipendiati ma operai specializzati con ruoli di responsabilità. A volte i telai costruiti non erano marcati solo a proprio nome, ma anche per conto terzi, come succedeva spesso ai piccoli artigiani, in questi casi però le commissioni erano più frequenti e di dimensioni molto maggiori.

L’officina dell’azienda Malaguti di Bologna negli anni ’30.

L’officina dell’azienda Testi di Bologna negli anni ’40.

Passione condivisa.
Spesso la passione che legava l’artigiano alla bicicletta era la stessa anche per il ciclismo, moltissimi infatti sono stati gli artigiani ex corridori, anche perché per costruire efficaci biciclette da corsa l’esperienza diretta era ed è ancora oggi fondamentale. I fratelli Guerra andavano, la sera prima del Giro di Romagna, a cercare i campioni per poter osservare i loro mezzi e così anche Vito Ortelli, quando era già professionista guardava i particolari di tutte le bici dei suoi rivali, per poi riferirli al padre, anche se la bicicletta da corsa, prima della fine degli anni ’50, non aveva ancora mercato.

Dopo la seconda guerra mondiale.
Fino alla fine degli anni ’50 per la creazione del telaio con il metodo della saldobrasatura si utilizzava una fucina a carbone. Era d’obbligo avere un piano di riscontro, dove prima della saldatura, vi si puntava il telaio, tenendo conto delle giuste angolature da rispettare per dargli la massima stabilità e per il lavoro di squadratura a telaio finito. Come gli attrezzi anche i piani di riscontro, in acciaio o ghisa, erano venduti sia dalle grandi aziende del settore che da artigiani (vedi Patelli di Bologna), altri come Vito Ortelli invece hanno provveduto a realizzarselo da soli.

Alla fine della seconda seconda guerra mondiale, erano molte le officine distrutte dai bombardamenti. Dopo aver salvato quello che era rimasto gli artigiani le hanno ricostruite anche usando rottami di mezzi militari abbandonati lungo le strade, anche perché era impossibile acquistare dei nuovi dalle aziende perché anch’esse in grande difficoltà per i danni subiti.

L’esperienza della guerra aveva introdotto però il nuovo metodo di saldatura a carburo e acetilene che consentiva di fissare i tubi senza l’uso delle congiunzioni (pipe), con minor tempo, maggiore precisione e senza il rischio di bruciare il tubo che non doveva essere pre riscaldato. Per le biciclette da corsa verranno ancora usate le pipe, almeno fino alla fine degli anni ’70, per dare al telaio una maggiore rigidità e valore estetico. Anche il procedimento di cromatura spesso subirà delle modifiche per renderlo meno costoso, mentre quello di verniciatura rimarrà invariato fino alla metà degli anni ’70.

In quegli anni l’Italia è un paese profondamente ferito, l’economia è prostrata e la società stessa di inizio secolo: agricola, arretrata e provinciale. Non si hanno soldi per acquistare beni non ritenuti strettamente necessari e la bicicletta non viene più acquistata. Rimane l’unico importante mezzo di locomozione ma molti non se la possono permettere, altri, che già ne possedevano di vecchie cercano di ripararle. L’attività degli artigiani si trasforma così da quella produttiva a quella di restauro, le bici vengono riparate, cromate e verniciate per dare ai mezzi una nuova efficenza e parvenza di nuovo.

La bici da corsa.

Dalla metà degli anni ’50 con il boom economico il paese riparte. Lo slancio dell’attività industriale arriva anche al settore del motociclo portando i costruttori di biciclette in piena crisi. Sembra finita l’era della bicicletta che ha svolto un ruolo fondamentale nella società italiana per oltre cinquant’anni. Gli artigiani che hanno superato la crisi del dopoguerra si trovano di fronte quindi ad una situazione che non lascia spazio alla bicicletta e si vedono costretti a chiudere o a modificare la propria attività. Le grandi officine come Testi, Cimatti e Malaguti di Bologna si organizzano per affiancare alla costruzione di biciclette quella di ciclomotori e alla rivendita di motori di grossa cilindrata, il processo di costruzione del telaio dei ciclomotori è infatti praticamente lo stesso.

Stabilimenti Testi di Bologna.

I più piccoli invece lavorano su commissione per le grandi aziende ma il guadagno è molto ridotto. Negli anni ’60 con il boom della bicicletta da corsa si apre una nuova opportunità di sviluppo per gli artigiani, oggetto di lusso prima del secondo dopoguerra, la bici da corsa diventa alla portata di tutti gli appassionati di ciclismo che hanno voglia di sfidarsi lungo le nuove strade asfaltate. Si aprì così un periodo di grande prosperità per i costruttori di bici dell’Emilia-Romagna, i quali hanno potuto investire in ricerca e innovazione per costruire biciclette di altissimo livello, oggetti del desiderio dei corridori dilettanti e professionisti dell’epoca in Italia e all’estero e oggi ambite dai collezionisti di tutto il mondo.
All’inizio degli anni ’80 l’avvento sul mercato di nuovi materiali leggeri hanno portato alla chiusura della maggior parte delle officine che non hanno saputo adattarsi alle nuove tecnologie di produzione. Oggi, grazie anche a nuovi tipi di lega competitivi con il carbonio, la bici in acciaio vive una nuova affascinante rinascita.